Il cane predatore a cura della Dott.ssa Marianna Marchetto

Nel mondo cinofilo di oggi si parla sempre di più dell’istinto predatorio del cane: il Border Collie che insegue le biciclette, il Jack Russel che non capisce più niente davanti ad una pallina e chi più ne ha più ne metta. A volte questa naturale predisposizione del nostro amico a quattro zampe può far credere che sia necessario farlo sfogare ”naturalmente”, magari portandolo a inseguire lepri e caprioli. Tuttavia il cane non è un predatore naturale ma il frutto di una selezione artificiale operata da millenni di co-evoluzione uomo-cane e questa conclusione è ben evidente se si analizza il comportamento predatorio dei carnivori selvatici con quello dei nostri amici a quattro zampe.

Prima di tutto, è opportuno definire cos’è un carnivoro, ovvero un animale la cui dieta si basa principalmente od esclusivamente sul consumo di carne.

Si dice invece “predatore” un animale che presenta un comportamento predatorio, ovvero un “un’interazione interspecifica che include una sequenza di azioni per mezzo delle quali una preda viene uccisa e mangiata” (Krames et al. 1973).

La sequenza predatoria si può scomporre in diverse fasi:

  • stimolo della fame
  • ricerca della preda
  • localizzazione
  • inseguimento
  • cattura
  • uccisione
  • consumo

Qualsiasi proprietario può affermare che il proprio peloso manifesta un comportamento predatorio: annusa il terreno, insegue la pallina, scuote il pupazzo, distrugge i suoi giochi. Ma è davvero così?

Il cane come tutti sappiamo deriva dal lupo. Le più accreditate teorie sulla domesticazione ipotizzano che il cane derivi da esemplari di lupi confidenti che nel corso del Neolitico gravitavano intorno ai primi insediamenti umani, approfittando degli scarti di cibo di origine antropica (Coppinger & Coppinger 2002).

La selezione artificiale ha poi comportato la fissazione di caratteri favorevoli all’uomo, come l’abbaio come forma di allarme, ma anche l’istinto predatorio. Questo tuttavia non è stato selezionato in toto in quanto un cane che consuma la preda non è utile all’uomo-cacciatore del Neolitico, ma piuttosto un competitore diretto. Per selezione artificiale sono nate quindi tutte le razze dei cani da caccia, ciascuna delle quali presenta un certo segmento della sequenza predatoria: cani da punta (localizzazione della preda), segugi e cani da pista (inseguimento), cani da riporto (cattura), e via dicendo.

Nonostante ciò, i cani sono capaci di predare e lo dimostrano i diversi casi documentati i quali assumono una grande importanza dal punto di vista ecologico, quando rivolti a prede selvatiche, e zootecnico, se rivolti a domestici, per via del sempre più consistente problema dei cani vaganti e ferali. In merito esistono moltissimi studi e svariati autori concordano tutti nell’affermare che il cane non è un predatore efficiente (Bowns 1976; Roy & Dorrance 1976; Schaefer et al. 1981; Umberger et al.1996; Tapscott 1997; AA.VV., 1998a,b,c; Bauer 2003). Per argomentare tale conclusione è sufficiente prendere in esame il comportamento predatorio dei carnivori selvatici. Senza muoverci troppo, consideriamo quelli che comunemente sono i grandi carnivori italiani: il lupo, l’orso, la volpe e la lince.

Il lupo appenninico (Canis lupus italicus) è una sottospecie di lupo tipico della penisola italiana che si distribuisce da parte dell’arco alpino lungo gli appennini fino al tacco d’Italia; assente nelle isole. Il lupo è un predatore specializzato nella predazione di grandi prede, principalmente cervi, caprioli e cinghiali. In generale la tecnica di caccia del lupo prevede la selezione della preda, prediligendo individui più facili da abbattere come animali feriti, malati, anziani e giovani, che in un’ottica ecologica si traduce  in un effetto positivo, mantenendo la popolazione di prede più sana.

L’avvicinamento avviene in modo silenzioso e l’attacco viene sferrato nel modo più efficiente possibile. Il branco si coordina per accerchiare la vittima e nel caso di prede di piccole dimensioni si evidenziano ferite localizzate nella parte anteriore dell’animale, mentre se è più grossa viene trattenuta per i quarti finché non viene inferto il morso fatale. Si ricorda che il lupo ha una potenza di morso di 106,2 kg/cm^2, in grado di tranciare un femore di un bovino adulto, pertanto i morsi inflitti dal predatore comportano lacerazioni profonde e asportazione di gruppi muscolari. Ciò fa sì che anche se la preda sfugge all’attacco, molto probabilmente morirà comunque per dissanguamento.

Il morso fatale inoltre è altamente peculiare della specie: viene inferto nella zona retro-mandibolare dell’animale, ove si colloca la carotide e altri importanti fasci di nervi dell’animale. Senza entrare troppo nel dettaglio, la potenza del morso oltre a lacerare i tessuti profondi comporta anche tutta una serie di reazioni fisiologiche che vanno a diminuire la frequenza e gittata cardiaca, determinando la morte della vittima nel giro di pochi secondi per collasso cardio-circolario. Nell’economia del predatore ciò implica il massimo risparmio energetico e lo rende un cacciatore ottimale.

L’orso rientra tra i grandi predatori italiani, sebbene di per sé non si possa classificare come un carnivoro ma come un onnivoro opportunista. La dieta dell’orso è altamente variabile a seconda della distribuzione geografica: a latitudini maggiori tendono a consumare maggiori quantitativi di carne, mentre a sud si riscontra il più alto consumo di ghiande, frutti carnosi e la più bassa quota di vertebrati. La predazione in questo caso avviene in modo opportunistico e spesso a carico di animali domestici (a differenza dell’orso americano). Per quanto riguarda l’orso marsicano (Ursus arctos marsicanus), urside endemico italiano, uno studio del 2014 evidenzia come la sua dieta sia principalmente erbivora sebbene il lato ‘carnivoro’ emerga principalmente in primavera ed estate, quando si cibano anche di insetti, ungulati selvatici e domestici. Il consumo di vertebrati è relativo a carcasse (predazioni di lupo, bestiame morto ed abbandonato,…), oppure a carico di cerbiatti o cuccioli di cinghiale (Ciucci et al. 2014).

La strategia predatoria dell’orso differisce nelle modalità di ricerca della preda e nel tipo di lesioni che infligge rispetto a quella del lupo, predando in genere greggi di ovi-caprini nel ricovero notturno, nella stalla, oppure durante il pascolo. Nei primi due casi spesso si verificano decessi di numerosi animali, causati indirettamente per schiacciamento e soffocamento dei capi spaventati, mentre nei greggi al pascolo l’orso si lancia con gli arti colpendo violentemente l’animale e uccidendolo graffiandolo e mordendolo su varie regioni del corpo. Le lesioni tipiche dell’uccisione da orso su una carcassa sono, oltre all’emorragia, i morsi con ampie lacerazioni, unghiate, sventramenti, fratture di ossa lunghe. L’orso consuma la preda iniziando in genere dagli organi interni, quindi le masse muscolari e lasciando la carcassa scuoiata con la cute quasi integra. Se per qualche motivo non può consumare interamente la preda, solitamente la carcassa viene ricoperta con fogliame, rami e terra.

La volpe assieme al lupo rappresenta due dei carnivori più ampiamente distribuiti a livello globale per via della loro natura adattabile ed opportunista. La dieta della volpe consiste principalmente in piccoli mammiferi, lagomorfi (lepri e conigli), uccelli, frutta, insetti e occasionalmente ungulati.   La tecnica di caccia della volpe prevede avvicinamenti furtivi sottovento o imboscate, quindi le prede vengono bloccate con le zampe anteriori balzandoci sopra; la morte sopraggiunge per morsi alle aree vitali. La preda viene azzannata alle zampe, ai fianchi e all’addome finché non cade a terra, momento in cui viene finita con svariati morsi a gola e nuca con lesioni dette ‘a forchetta’. Ciò è dovuto ai canini particolarmente affilati che riescono a penetrare nelle masse muscolari, provocando emorragie sottocutanee Generalmente le prede piccole vengono consumate interamente, mentre per le prede più grosse la volpe si ciba delle masse muscolari mentre vengono lasciate testa, arti/ali e pelle. Nei rari casi in cui caccia ungulati, si tratta di animali feriti, malati o anziani/molto giovani. Nella maggioranza dei casi il predatore stacca parti del corpo della vittima (spesso la testa) e le allontana di qualche metro. Si nutre quindi di addome e suo contenuto (Ciucci et al. 2005).

Altro carnivoro italiano ancora poco diffuso e conosciuto è la lince, presente nelle Alpi con un numero esiguo di individui. La lince appartiene alla famiglia del felini ed è pertanto un carnivoro in senso stretto, ovvero la sua dieta si compone per la maggioranza di carne. Le sue prede principali ungulati di dimensione medio-piccola, ma la sue dieta può comporsi anche di cinghiali, lepri, uccelli, topi, scoiattoli. La tecnica di caccia della lince prevede un appostamento in zone ad alta copertura vegetale spezzate da radure e l’attacco viene sferrato da circa 10 metri, distanza che premette al predatore di raggiungere un alto tasso di successo nell’abbattimento della preda. La preda viene quindi afferrata prevalentemente su spalle e fianchi e le artigliate vengono definite “a lama di bisturi” dal momento che penetrano la cute fino a raggiungere gli strati muscolari. La morte dell’animale è determinata da morsi (in genere 2-4) nella regione ventrale e laterale del collo, in modo molto simile a quanto visto per il lupo. A differenza di quest’ultimo tuttavia, i morsi si caratterizzano per essere estremamente puliti e profondi, peculiarità dovuta al fatto che non avviene scuotimento del capo e l’animale rimane appeso alla preda fino al collasso. Infine, la preda viene solitamente trascinata dal punto di predazione verso la vegetazione più fitta e la lince ritorna per più giorni a consumare la preda, con un tasso di consumo pari all’80-90%. Il consumo della preda inizia dai quarti inferiori e il predatore procede minuziosamente a cibarsi del muscolo lasciando intatte le ossa e il tratto gastrointestinale, per cui si osserva un rovesciamento della cute. Ci sono documentazioni riguardo il posizionamento della preda sui rami degli alberi, come avviene solitamente nel leopardo e questo comportamento in genere viene interpretato come una risposta alla sottrazione delle carcasse da parte dei necrofagi. (Pascotto 2012).

Per quanto riguarda il cane, diversi autori concordano sul fatto che l’inseguimento di possibili prede è dovuto semplicemente ad un fenomeno di autogratificazione che non ha come fine l’abbattimento e il consumo della preda, tant’è che nella maggior parte dei casi le battute di caccia su ungulati selvatici si rivelano infruttuose (Beck, 1974; Casey& Cude 1980). Ciò apparentemente potrebbe sembrare positivo, in quanto il cane si scarica, il selvatico non viene abbattuto e siamo tutti più contenti. Ovviamente, non è così.

Uno studio del 2011 eseguito sull’Isola d’Elba, dov’è assente il lupo e pertanto l’attribuzione di abbattimenti è imputabile solamente al cugino domestico, mette in luce le tecniche di caccia del cane. Gli autori sottolineano come le ferite da morso sono disposte in modo casuale e per via della poca efficacia del morso del cane (si ricorda che un pastore tedesco sviluppa una potenza di 53 kg/cm^2) e i canini smussati, che spesso non riescono a penetrare al di sotto della pelliccia provocando delle contusioni nel sottocute che non rappresentano la causa diretta di morte dell’animale. La morte infatti è dovuta per la maggioranza dei casi per collasso cardiocircolatorio da stress e in generale per politraumatismi o per infezioni dovute alle lesioni superficiali riportate. Spesso l’animale presenta infatti edema polmonare dovuto ai lunghi inseguimenti, assente invece nel lupo. Il sito di predazione inoltre presenta inoltre un notevole spargimento di sangue per via della morte lenta dell’animale e in generale appare confuso.

I cani non sono in grado di eseguire una selezione della preda, inseguendo più o meno tutto ciò che si muove e comportando una perdita della funziona di selezione del predatore sulla preda, influendo pertanto anche sulla capacità riproduttiva della specie. Ma se per gli ungulati selvatici ciò può comprendere qualche episodio sporadico, per gli ungulati domestici la situazione può diventare ben più seria: uno studio condotto nei Pirenei francesi ha ricondotto il 91% delle predazioni su domestici al cane, mentre il restante 9% all’orso (Bouvier and Arthur 1995); diversi studi inoltre mostrano come il cane preda maggiormente su bestiame domestico (probabilmente per via della facilità di uccisione della preda), con effetti negativi anche sul cugino lupo per via di fraintendimenti nell’identificazione del predatore. Infine, gli effetti dei cani vaganti sui selvatici possono essere tradotte in costi, come fatto da un ricercatore in Kansas, rilevando la morte di quasi 5000 cervi in un anno (Denny 1974).

Infine, uno studio di 3 anni in Abruzzo dimostra come i cani ferali (cani senza proprietario, non alimentati volontariamente dall’uomo e senza ricoveri forniti dall’uomo, con comportamento di evasione dell’uomo stesso) in natura non sono carnivori efficienti: il loro tasso di riproduzione non permette loro di mantenersi in natura, esiste un alto tasso di mortalità giovanile, la loro dieta si basa principalmente su immondizia e carcasse derivanti dall’attività antropica (come dimostrato da svariati altri studi in contesti differenti). Il vantaggio evolutivo del cane starebbe quindi proprio nella sua capacità di usufruire di risorse di derivazione antropica (Vanak & Grompper, 2009; Lescureaux & Linnel, 2014).

Caso a parte quello degli ibridi lupo-cane: in questo caso la dieta degli ibridi risulta sovrapponibile a quella del lupo in termini di consumo della specie preda e di selezione degli individui più deboli all’interno della popolazione, pertanto occupano la stessa nicchia trofica. In questo caso un ruolo importante è giocato da fattori ambientali ed interni il branco: la parte ‘lupina’ concorre a mantenere il comportamento predatorio selvatico. Il problema principale tuttavia è che l’aspetto morfologico degli ibridi li rende simili ai cani e pertanto risulta loro molto più semplice avvicinarsi a centri abitati e sviluppare comportamenti confidenti, con maggior probabilità di predazioni su domestici che poi vengono ricondotti in tutto e per tutto al lupo (Firmo I. 2015).

Ricapitolando, il cane non possiede le caratteristiche fisiche di un predatore naturale e non mostra tecniche di caccia specializzate, comportando la morte dell’animale per sfinimento, infezioni ed emorragie. E dal punto di vista del cane? Ore e ore di inseguimento possono portare a problemi di salute legate allo sforzo, nonché rischi associati a correre a perdifiato su terreni impervi (strappi muscolari, lesioni, fratture etc…). Nondimeno, l’incontro con animali selvatici quali cinghiali, lupi e orsi potrebbero essere fatali. Infine, quanti sono i cani che ogni anno si perdono ed eventualmente vengono ritrovati a distanza di giorni stremati e affamati perché non in grado di cibarsi da soli?

Ultimo ma non ultimo, un accenno alla normativa vigente: l’Ordinanza del 6 Agosto 2012 sottolinea che

“il proprietario è sempre responsabile del benessere, del controllo e della conduzione dell’animale e risponde, sia civilmente sia penalmente, dei danni o lesioni provocate a persone, animali o cose, provocati dall’animale stesso”. Proprietari di cani rei di abbattimento di selvatici sono sanzionabili con multe fino a 1500 euro.

Siamo davvero sicuri che tutto ciò sia vantaggioso per il cane e per noi?


  • VV. Animal Behavior Case of the Month. JAVMA, Vol. 212 (7) (1998a).
  • Bauer E.A. Predators – Coyotes & Wild Dogs. In:shagharkridge.com/info/coyote.html (2003).
  • Bowns J. E. Field criteria for predator damage assessment. Utah Sci. 37:26-30 (1976).
  • Ciucci P., Tosoni E., Di Domenico G., Quattrociocchi F., Boitani L. Seasonal and annual variation in the food habits of Apennine brown bears, central Italy. Journal of Mammalogy, 95(3):572–586 (2014).
  • Coppinger R., Coppinger L.. Dogs: A new undesrtanding of canine origin, behaviour and evolution. Chicago University press (2002).
  • Krames, Milgram N. W., Christie D. P. Brief report: predatory aggression: differential suppression of killing and feeding. Behav. Biology 9: 641-647 (1973).
  • Roy L. D., Dorrance M.J. Methods of investigating predation on domestic livestock – A manual for investigating officers. Alberta Agriculture , Edmonton (1976).
  • Schaefer J. M., Andrews R. D., Dinsmore J. J. An assessment of coyote and dog predation on sheep in Southern Iowa. Journal of Wildlife Management, 45: 883-893 (1981).
  • Tapscott B. Something’s been killing my sheep – but what? How to difference between coyote and dog predation. Ontario Ministry of Agriculture, Food and Rural Affairs (1974).
  • Umberger S. H., Geyer L.L., & Parkhurst J. A. Addressing the consequences of predator damage to livestock and poultry. Virginia Cooperative Extension, Knowledge for the Common Wealth, 410-030 (1996).
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